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La domesticazione sociale Sulla modernità e il disagio che la governa di Gianni-Emilio Simonetti Edizione Derive Approdi Pagg. 168 Euro 13,50 |
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La "domesticazione sociale" è l’altro nome di quelle pratiche di dominio che sono all’origine di obbedienza, consenso, pace sociale. Non ideologie, forme di cultura o teorie, ma vere e proprie forze che plasmano la nostra vita, modellano i nostri comportamenti e vincolano il nostro comune. La "domesticazione sociale" è all’origine di quella sudditanza vissuta con disarmante fatalismo, in virtù della quale di volta in volta ci troviamo a rivestire gli abiti di un popolo di consumatori, produttori, guerrafondai, utenti, elettori… La "domesticazione sociale" è la misura di quella distanza tra i molti che obbediscono e i pochi che comandano, tra i molti impiegati delle nuove officine del lavoro e i pochi che ne traggono profitto. Capire le ragioni di ciò che produce la nostra alienazione nella forma della merce, nella forma dello spettacolo e nella forma del consenso è il presupposto per immaginare una possibile ribellione a questo presente e al prossimo futuro. Gianni-Emilio Simonetti, nato a Roma, vive sul Lago Maggiore. Per i tipi di DeriveApprodi ha pubblicato L’agonia e i suoi sarti. 1968-1998: le ragioni dell’assalto e quelle della resa (1998) e La funzione sociale dell’arte e la follia. Medicalizzare l’alterità (2001).
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Il testo Nessuno può restare indifferente davanti alla intollerabile sproporzione che esiste tra il numero di quanti comandano e di coloro che ubbidiscono. Allo stesso modo, nessuno può sottovalutare la violenza sempre più devastante delle moderne forme di sopruso e il moltiplicarsi degli inganni della domesticazione sociale, che i primi infliggono ai secondi. Perché non sono più le configurazioni politiche ed economiche dell’impero dei capitali quelle che contano, ma le ragioni segrete che lo hanno inverato, e che ora lo proteggono dal doverle rivelare. Ragioni che smentiscono ogni sogno rivoluzionario degli "ubbidienti", infangando la loro storia. Quanto ai risultati, è sufficiente riflettere sul crepuscolo della "nuda vita" e sull’efficacia delle forme di corruzione della socialità introdotte dall’idealismo nella società spettacolare, un regno che ha fatto del profitto un dio. Ma c’è chi ha dedicato altari alla peste. Etienne De La Boétie, che ne Le discours de la servitude volontaire, denunciò questa sproporzione – questo "stato di eccezione" della "nuda vita" – era tanto convinto della grossolana e disonorevole ingiustizia contenuta in essa, che non volle pronunciare nessuna esortazione al popolo affinché si liberasse dal tiranno. Sarebbe stato superfluo, considerato che, "perché tutti gli uomini si lascino assoggettare è necessario una delle due: essere costretti o ingannati". Appuntò, piuttosto, la sua attenzione sull’evidenza infamante della condizione di sudditi, una condizione educativa più di qualunque appello alla rivolta recitata dai tribuni di turno, di per sé, uno stimolo potente a riprendersi la libertà adesso, rifiutando qualsiasi consolatoria visione di future e ideali forme di governo. Un’esortazione che nella storia europea è progressivamente caduta nel vuoto, almeno da quando l’individuo "civilizzato" è divenuto una preda della coustume, vale a dire, dell’insieme delle consuetudini e delle abitudini che determinano la vita corrente. Osserva La Boétie, la coustume "ha una grande influenza sulle nostre azioni ed esercita il suo potere soprattutto nell’insegnarci a vivere", così, "la prima ragione per cui gli uomini servono di buon animo è perché… sono allevati come tali", tanto che, questo vizio della natura umana, "non merita neppure il nome di viltà". […] Non basta constatare la nocività della forma di merce in astratto, occorre poterne trarre le conseguenze opportune e fronteggiarla, perché la domesticazone sociale ha la funzione di svalutare i rischi, accrescere la falsificazione e mantenere il segreto sull’importanza vitale della verità, soprattutto se confrontata con la menzogna universale delle rappresentazioni separate. Da questo stato di cose se ne può dedurre una indicazione tattica: considerato che i bisogni umani più elementari sono disprezzati dalle forme di potere in ogni parte del mondo, che la sovranità irresponsabile della merce mette nelle mani di pochi, spetta ai molti riprendersi i loro diritti anche senza mandato. In questo senso nuovi territori si aprono alla sovversione, confortati, nelle loro ragioni, dalla storia che, da tempo, invoca lo smantellamento di ogni forma di produzione mercantile. Ragioni che, prima di diventare politiche, sono apparse ai grandi movimenti di massa giovanili come una pulsione alla conservazione di sé. Esse rappresentano l’espressione di un contenuto universale, che fa della "nuda vita" la sola garanzia possibile alla eradicazione della nocività sociali. L’urgenza di una tale sovversione ha ragioni che non devono essere né enumerate né discusse, esclusa una, la più importante, perché, scontate le smorfie che l’amara medicina comporta, lo spettacolo è capace di attingere delle idee anche da ciò che detesta di più, pur di trasformarlo in un princisbecco. È il caso di cronaca di certe conclusioni nel campo della socialità e delle urgenze vitali che i "social forum" esprimono e i parlamenti assumono per meglio banalizzarle, considerato che, dal loro macchiavellico punto di vista, è meglio una città devastata che perduta. In questo contesto, gli interessi e le forme di socialità che nascono dal basso contengono sempre un germe di sovversione, particolarmente ostile ad ogni autorità, che non lesina i suoi sforzi per sradicarle. Il motivo è evidente, nulla può alterare l’uniformità mercantile, dietro la quale si nascondono le ingiurie alla "nuda vita" e la memoria di antiche ribellioni.
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