Pier Paolo
Pasolini, Dante Troisi, Nicola Ciarletta, Rosario Assunto, Rosso di San
Secondo, Franco Brusati, Ugo Betti, Roberto Villa, Diego Fabbri, Leonardo Sciascia, Adolfo Celi, Antonio Piromalli, Michelangelo Antonioni, Gianni
Grazzini, Giulietta Masina, Giuseppe Berto, Vittorio de Sica, Ennio Flaiano,
Vasco Pratolini
Raccontati da Turi
Vasile
Cangemi Editore
pp.127
Prezzo: Euro 7,00 |
Roberto
Villa, maschera e volto
Sabato 29 giugno è morto a 87 anni Roberto Villa. Quelli della mia
generazione lo ricordano come un ammirato divo del cinema degli anni Trenta.
Bello, dagli occhi chiari, dal tratto gentile, dal sorriso luminoso fu
l’idolo delle ragazze in fiore come delle signore sulla menopausa: queste
per effetto di un complesso materno - edipico; quelle per uno slancio
d’amore irrangiungibile. Fu un eroe “dei
telefoni bianchi” come si diceva dei film di
evasione, ed ebbe come registi da Comencini a De
Sica, da Gallone a Matarazzo, da
Bragaglia a Mastrocinque…
Fu dunque uno stereotipo dell’epoca in cui i sogni compensavano la realtà.
La sua morte richiama alla mia mente un ricordo che, pur
riguardandomi, lo riguarda. Vinsi quell’anno il
Concorso Nazionale dei GUF (Gruppi Universitari Fascisti) per un testo
teatrale, con il giudizio unanime di una giuria presieduta da Ugo Betti.
Come era nel regolamento il dramma, dal titolo
Arsura fu incluso nel cartellone del Teatro Nazionale dei GUF con sede a
Firenze, via Laura, e diretto da Giorgio Venturini.
Primo attore vi era Salvo Randone che tuttavia
rifiutò di interpretare il ruolo del protagonista per motivi
di opportunità che mi furono chiari più tardi. Fu
sostituito da Gero Zambuto, un attore all’antica
italiana, perfetto nella parte di un vecchio libidinoso. Lo affiancò
un’attrice di stile tutto diverso, dalla recitazione sobria, asciutta, ma
intensa e vibrante in grado di trasfigurare l’interpretazione naturalistica
in astrazione e metafora. Si chiamava Kiki
Palmer, anche se dimenticata resta una delle più
grandi interpreti dell’epoca.
Il terzo ruolo, con mio profondo scetticismo, fu da Giorgio
Venturini, anche regista dello spettacolo,
affidato a Roberto Villa, che a me sembrava del tutto lontano dal ragazzo
rusticano roso dai tormenti e provato dal dolore; ma non osai fare obiezione
a causa della mia condizione di quasi esordiente e della mia giovane età.
Quando andai a Firenze per le prove mi
accorsi che non si deve mai avere preconcetti né pregiudizi.
Il Villa che io conoscevo per averlo visto nei
ruoli melensi a cui era costretto sullo schermo, mi si rivelò come un
giovane tormentato, come un interprete non solo diligente, ma desideroso di
continui approfondimenti. Anche il suo
bell’aspetto mi sembrava cambiato; a suo agio
nei panni rusticani di un personaggio francamente con reminiscenze
verghiane era come se si fosse liberato con
profondo sollievo della sua avvenenza considerata una maschera su un volto
dolente. La sua interpretazione somigliava a una
confessione di chi si accorge delle insidie delle inquietudini nascoste
dentro di sé.
La sera dello spettacolo i primi due atti passarono abbastanza
lisci, solo con mormorii premonitori; ma all’ultima scena scoppiò un vero e
proprio putiferio di fischi, proteste, sghignazzamenti, insulti. Il più
scalmanato era Luigi Bonelli, che per
esterofilia e nella convinzione che il pubblico non amasse il repertorio
nazionale, aveva assunto lo pseudonimo di Cetov
e le sembianze di un Tolstoi con lunga barba,
aiutato da due stampelle che, si diceva, erano solo “di scena”. Un manipolo
di estimatori dello spettacolo cercava di
reagire, arroccato attorno a un grande uomo di teatro, Cesare Vico
Lodovici, oggi del tutto dimenticato, con al
fianco il giovane Franco Rossi su cui ingiustamente va già stendendosi
l’ombra dell’oblio.
Gli attori, sbigottiti, interruppero la recita;
ma Roberto Villa ebbe una reazione inimmaginabile; impugnò una sedia e la
lanciò verso la platea. Fortunatamente la buca del suggeritore che
allora troneggiava in tutti i prosceni, impedì
che l’improvvisato bolide piombasse tra gli spettatori provocando danni. Il
gesto però servì a raffreddare con prodigiosa rapidità gli animi e gli
attori poterono portare a compimento il secondo atto senza attirare né
fischi né applausi.
Il terzo atto fu ascoltato con relativo silenzio, punteggiato qua e
là da qualche risata e da qualche sberleffo; ma la chiusura del sipario fu
salutata da una ovazione esplosiva di chiaro tono
sfottente. Gli attori stettero al gioco e si presentarono per ringraziare e,
applaudendomi, costrinsero anche me a mostrarmi sul palcoscenico. Fui
salutato da una bordata di fischi e lazzi a cui facevano impari eco i
battimani e i “bravo!” dei miei sostenitori. E fu
a quel punto che Roberto Villa mi si avvicinò, mi abbracciò forte, e con
voce di pianto mi disse: “Non capiscono niente; non sanno in che mondo
viviamo”.
Proprio allora un milite in uniforme mi
ingiunse di seguirlo. Nel foyer mi aspettava Vidussoni,
il temuto Segretario Nazionale dei Guf, a cui la
guerra aveva asportato un braccio sostituito da una protesi di legno.
-Camerata!- mi disse con la faccia feroce - ho assistito allo
spettacolo e ho dato ordine che al tuo lavoro venga
impedita la rappresentazione in tutti i teatri del Regno, per il suo
scellerato pessimismo in contrasto con la gioiosa speranza della Gioventù
Italiana del Littorio!”
Era la sera del 20 febbraio del 1943; alle porte la catastrofe che
Roberto Villa, al di là della sua maschera di
spensieratezza e di ottimismo a tutti nota, aveva covato nel suo intimo. |