Ilaria
Occhini in Spettri di Henrik Ibsen
scene e costumi Claudia Calvaresi
regia Massimo Castri
con
Ilaria Occhini, Alarico Salaroli, Luciano Virgilio, Pierluigi Corallo,Irene
Petris
produzione Teatro Biondo Stabile di Palermo
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di Enrico Fiore per Il
Mattino
«Credo
quasi che noi tutti siamo spettri, pastore Manders. Non soltanto
quello che ereditiamo da padre e madre riappare in noi, ma ogni
sorta di idee vecchie e morte, e convinzioni altrettanto vecchie
e morte. Tutto ciò non vive in noi; ma c'è tuttavia
e non possiamo liberarcene». Senz'alcun dubbio, è questa
(viene pronunciata da Helene, vedova del capitano e ciambellano
Alving) la battuta-chiave di «Spettri». Perché
incarna il tema centrale del teatro di Ibsen: l'accamparsi, al posto
della vita vera, di un presente che - per riprendere ancora una
volta la decisiva osservazione di Szondi - «si limita ad essere
un pretesto per l'evocazione del passato», mentre il futuro
resta affidato all'improbabile ipotesi del «meraviglioso»,
e di un «miracolo» in cui, peraltro, non si crede più:
un «meraviglioso» e un «miracolo» improbabili
simboleggiati, nel dramma in questione, dal sole invocato da Osvald
prima di piombare nella demenza e dall'incendio dell'asilo che avrebbe
dovuto ripulire e rivalutare la memoria del dissoluto capitano e
ciambellano. Infatti, «Spettri» s'incentra sull'autentico
processo intentato al matrimonio fra Helene e Alving: apparentemente
un matrimonio modello, tanto che ci si appresta - per l'appunto
- a celebrarlo con l'inaugurazione dell'asilo intitolato al defunto;
ma che, in realtà, non fu «null'altro che un abisso
mascherato»: stanti gli stravizi a cui s'abbandonava il defunto
medesimo, sino a concepire con la cameriera Johanne quella Regine
che adesso sta in casa anche lei come cameriera e della quale s'innamora
il fratellastro, giusto Osvald. Ora, Massimo Castri - regista dell'allestimento
di «Spettri» che il Teatro Biondo Stabile di
Palermo presenta al Bellini - sottolinea il peso predominante
del passato attraverso la metafora della regressione all'infanzia:
Osvald finisce camminando carponi con un cappello da soldatino in
testa e una sciabola di legno nella destra. E intorno a quest'Osvald
che s'allontana dalla vita ritornando bambino, si muovono personaggi
di cui Castri esaspera fino al grottesco il tratto negativo predominante:
l'ipocrisia in Manders, la disonestà nel falegname Engstrand,
il cinismo calcolatore in Regine. L'emblema di tanta impotenza e
ambiguità è il modellino dell'asilo messo in bella
vista e che, in coincidenza con l'incendio effettivo, prende fuoco
in un colpo d'illusionismo. E precisi quanto il regista son quasi
tutti gl'interpreti: Ilaria Occhini (un'Helene
Alving sospesa fra illusione e dolore), Luciano Virgilio
(un Manders sfuggente e insinuante), Alarico Salaroli
(un Engstrand scavato nel falso vittimismo) e Irene Petris
(una Regine debitamente sfrontata), mentre troppo esagitato mi pare
l'Osvald di Pierluigi Corallo.
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