|
Tra tante tragedie
e tante futilità questa estate ci ha riservato un diversivo:
un’operetta di Vittorio Sgarbi dal titolo Dell’anima, edita da
Bompiani. La lettura ha richiamato, almeno a me, le conversazioni
della lontana giovinezza quando ci domandavamo Chi siamo? Donde
veniamo? Dove andiamo?, interrogativi ai quali ciascuno di noi si
illudeva di dare una risposta, spesso conforme a quella ipotizzata
dall’ultimo filosofo studiato a scuola. Erano gli anni del liceo e
quel gruppo di ragazzi di provincia passeggiava per le strade fino a
notte alta senza avere consapevolezza di stare conversando sul nulla,
su quesiti destinati a restare senza risposte certe e razionali.
Ciascuno si affezionava alla propria tesi per ostinazione dialettica;
ma tutti traevano da quegli oziosi certami una tempra intellettuale
ora indebolita dal passare del tempo.
Tornare a discutere
sui quesiti dimenticati tra le pieghe delle cure quotidiane, tornare a
riflettere sull’esistenza dell’anima come in questo caso, non nei
termini scientifici o filosofici riservati agli specialisti ma,
vivaddio!, con la lucida temerarietà di cui Sgarbi è campione, consola
e diletta l’animo…
Sul tema proposto
l’autore se la cava con uno slogan: l’anima non esiste, ma resiste”.
Dopo aver escluso che essa sia una reazione biochimica, Sgarbi
sostiene che l’anima, spentasi col corpo, rivive nelle opere dei geni:
Dante, Shakespeare, Michelangelo, Picasso… e vi resta finché si
estingue la memoria dei loro rispettivi capolavori. L’anima sarebbe un
privilegio elitario da cui sono esclusi tutti gli altri, “anime morte”
per ricordare una espressione trovata in Gogol.
L’interesse del
piccolo saggio non nasce, tuttavia, dalla verifica dell’esistenza
dell’anima, ma dalle conclusioni che portano al riconoscimento delle
categorie della memoria e dell’angoscia. La prima, definita come la
virtù che distingue l’uomo dagli altri esseri viventi del pianeta,
rende possibile l’evoluzione non tanto antropologica quanto
industriale, intellettuale e culturale, in una parola la civiltà del
progresso.
I greci, formulando
della Verità ipotesi estetiche, ponevano Mnemòsine a madre di tutte le
Muse e la identificavano con la fonte che restituisce all’uomo la
memoria perduta con l’immersione nel fiume Lete. La vita di ciascuno
era il tentativo di ricordare quel che si era dimenticato venendo al
mondo. L’anima, perciò, era, secondo i Greci, una retta senza inizio e
senza fine, come è sintetizzato in un frammento di Leonida da Taranto
che conviene riportare nella traduzione di Manara Valgimigli:
Infinito fu il tempo
prima che tu vedessi, uomo, la luce;
ed infinito il tempo
che dovrai rimenere, uomo, nell’Ade.
Il pezzo di tua vita
è quanto un punto, e meno anche di un
punto;
piccola vita, e come
tra due eternità schiacciata.
L’anima nella
concezione del Cristianesimo è invece una semiretta proiettata verso
l’immortalità. Così il corpo, composto di fango al quale è destinato a
tornare (pulvis, cinis et nihil) si anima grazie al soffio di
Dio.
Mi accorgo che,
provocato da Sgarbi, ho risvegliato l’oziosità dei discorsi
peripatetici della prima giovinezza; non mi propongo qui, del resto,
come recensore del piccolo saggio in esame, ma come attento lettore
che, grazie ad esso, riscopre quanto giace inerte nella propria
memoria.
Passo ora al
secondo punto di estremo interesse segnalato dall’irrequieto Sgarbi:
l’angoscia, “tema proprio della civiltà del Novecento”. È un argomento
da cui mi sento attratto fin dagli anni Cinquanta, non per mia diretta
intuizione ma in seguito alla lettura di un saggio dal titolo The
Outsider di un allora giovane critico inglese, Colin Wilson.
Ogni secolo ha la
sua malattia “poetica”, la Tisi nell’Ottocento per esempio, capace di
trasfigurare la realtà come è virtù dell’arte. Il Novecento è dominato
dalla nevrosi di angoscia; nasce con Kierkegaard considerato il
precursore dell’esistenzialismo, spirito eletto di intensa
religiosità, nascosta e travisata ad opera dei tedeschi nelle
traduzioni dal danese dei suoi testi; sboccia nella Mitteleuropea con
Kafka e Rilke; si trasmette in Francia con Sartre e Camus. Quest’ultimo
scrive Lo straniero giudicato giustamente da Sgarbi “libro
biblico della condizione umana”.
L’angoscia è uno
degli effetti della conquistata libertà che fa paura perché lascia
improvvisamente l’uomo solo, smarrito di fronte a responsabilità
sconosciute, non più sorretto da una sapienza gnomica pronta a dare
tutte le risposte. L’uomo è pertanto trascinato all’autoemarginazione
individuale che mette in crisi la sua identità, lo rende appunto,
outsider, straniero. Da tutto questo nasce la Grande Cultura e la
Grande Arte senza frontiere del Novecento.
Da quel saggio di
Wilson ho tratto un metodo, che ora Sgarbi mi ripropone, per giudicare
le opere dei miei contemporanei, anche di quelli esclusi dal
foltissimo elenco proposto dal critico inglese. Questi non menziona
per esempio Pirandello (Il fu Mattia Pascal) e Italo Svevo (La
coscienza di Zeno) certamente partecipi della cultura europea
venuta, ancora una volta, dall’Oriente. Anche Giuseppe Berto (Il
male oscuro) e altri sono i nostri poeti della alienazione; ma
Sgarbi cita solo Moravia (La noia) ponendolo accanto a Sartre (La
nausea). A me non pare che Moravia penetri profondamente in quel
malessere che, casomai, era trapelato ne Gli indifferenti.
Il mito dello
Straniero, richiamato dal saggio di Sgarbi, ha varcato nel frattempo
l’Oceano e ha trovato in Saul Bellow (Herzog) il suo più
importante interprete.
“Il Ventesimo
Secolo – osserva acutamente Sgarbi – è stato quello in cui, man mano
che l’uomo conquistava libertà, democrazia, benessere, si verificava
una reazione negativa volta a umiliarlo, mortificarlo, ucciderlo…” Il
Novecento che ha sbandierato Grandi Principi volti al riscatto
dell’Uomo e alla salvezza della Natura, ha in pratica provocato
genocidi, massacri, terrorismi, disastri ecologici e ancora gronda
sangue come non mai. Questa drammatica contraddizione spinge
l’individuo indifeso a rifugiarsi nel mistero del suo io.
Così Vittorio
Sgarbi pur negando l’esistenza dell’anima ne celebra le forme, ne
definisce gli effetti senza cause.
L’anima, dunque,
esiste? La si può fotografare, sia pure con raggi infrarossi, la si
può pesare come fa il protagonista di un citato racconto di Andrè
Maurois?… Esista o non esista, non importa: alcuni temi sono al di
fuori della misura dell’uomo, ne fanno un essere enigmatico a cui può
fare da bussola solo la fede che non dà prove né ne chiede, oppure la
poesia. Sono tuttavia grato a Sgarbi per avermi indotto a meditare con
impegno amatoriale sull’archetipo prototipo dell’antropomorfismo
universale… Per quanto mi riguarda personalmente continuo a coltivare
la speranza della resurrezione predicata da Paolo di Tarso.
Turi Vasile
|
|