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«C'è
una sola cosa che mi fa irritare oggi come quando ero ragazzo: la
disonestà, l'incoerenza verso se stessi dei voltagabbana»,
sospira Mario Monicelli, abbandonando per un attimo il suo tradizionale
humour nero, «e questa disonestà intellettuale è
un atteggiamento che domina la politica italiana in modo protervo
e provocatorio». Probabilmente è tutta qua la ricetta
magica che permette a Mario Monicelli, 90 anni il 15 maggio, decano
del cinema italiano, di rimanere lucido testimone del nostro tempo:
la capacità e la voglia di scandalizzarsi per quello che
tanti suoi colleghi più giovani sembrano aver assimilato
come fattore endemico della vita. «Io non sono un critico
cinematografico e non mi permetterei mai di giudicare i colleghi»,
sorride il regista, «però, avendo sempre dichiarato
di essere comunista e superficiale, noto come loro, invece, siano
superficiali senza essere comunisti e questo toglie loro la capacità
di ritrarre in modo impietoso la realtà, dote fondamentale
per la commedia, come per il film "impegnato"».
Monicelli,
in questi giorni, è travolto dalle celebrazioni del suo compleanno:
lo festeggiano ad EuropaCinema di Viareggio, sarà ricevuto
dal presidente Ciampi al Quirinale in occasione del David speciale
2005, che riceverà il 29, assieme all'amico e collega Dino
Risi, a Tom Cruise e a Vittorio Cecchi Gori, sta per uscire un libro
sulla sua carriera che sarà presentato all'Auditorium di
Roma, ma il regista ha il cruccio di non aver ancora iniziato il
suo nuovo film. Monicelli, che n'è di «Le rose del
deserto»? «Sono pronto da sei mesi, avrei potuto cominciare
a girare alla fine di gennaio: la sceneggiatura è finita,
ho fatto i sopralluoghi in Tunisia e Marocco, il cast c'è,
ma mancano i soldi. |
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Il produttore
Berardi cerca di chiudere i contratti, ma a questo punto temo che
non potrò cominciare le riprese prima di settembre, mica possiamo
andare in Africa in estate, poi c'è sempre la possibilità
che io schiatti prima, e senza nemmeno il carisma di Ranieri di Monaco
e Papa Woityla. Peccato: ci tenevo a girare ancora questo film».
Di che cosa parla? «Il punto di partenza è "Il deserto
della Libia", il romanzo di Mario Tobino. Io la guerra la conosco,
sono stato in cavalleria in Jugoslavia nel 1941, ho combattuto Tito
e gli ustascia. So com'eravamo noi e so cosa era la guerra: voglio
raccontare le storie di questi ragazzi, che dalle retrovie furono
buttati nel deserto, nell'attesa di qualcosa che non sarebbe mai arrivato».
Diceva di avere già il cast, chi saranno i protagonisti? «Chi
sarebbero stati, vuol dire. Il film è un'opera corale dove
emergono tre o quattro personaggi. Avevo Michele Placido, Paolo Haber,
Giorgio Pasotti e Diego Abatantuono, mica posso sperare che continuino
a tenersi liberi in attesa di un film che non si sa quando cominci».
Potrebbe chiedere Tom Cruise, visto che lo incontrerà al Quirinale.
«Non si può far recitare la parte di un italiano a un
inglese, o a un americano: sono troppo diversi da noi. In certi casi
possono andare bene i francesi, tanto che in passato l'ho fatto con
Blier, Noiret, la Girardot, tutti perfetti, perché siamo simili.
Il vero problema sono le comparse, quelle che ho visto finora sono
un disastro». In che senso? «Mi sono arrivati tutti giovani
alti, belli, palestrati, con il passo felpato e sicuri di sé,
sembravano pronti per andare in televisione. All'epoca gli italiani
non erano mica così: eravamo bassi, con le gambe storte, ignoranti,
spauriti, incapaci di recitare, proprio come le comparse che avevo
trovato per "La grande guerra". Sarà divertente cercarli».
Lei è proiettato nel futuro. Si ferma mai ad analizzare i suoi
ricordi? «Non li ho, cancello tutto. Poi, se mi costringono
a ricordare, mi piace quello che ho vissuto: ho avuto una vita fortunata,
facendo quello che volevo, ottenendo anche la notorietà e il
successo. |
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Ci sono
stati più alti che bassi nella mia vita: ho conosciuto un sacco
di gente importante, che mi ha dato stimoli e fatto crescere, ho visitato
tutto il mondo a spese dei produttori, ho conosciuto donne belle,
brutte, interessanti, sono in salute e sono rimasto l'ultimo superstite
di una generazione. Chi vuole sapere qualcosa della mia epoca deve
chiedere a me: che posso volere di più? Mi sono piaciuti anche
i miei fallimenti». Quali? «Film come "Tò
è morta la nonna!", un flop totale, "I compagni",
che solo ora è stato rivalutato, "Bertoldo, Bertoldino
e Cacasenno", che doveva essere nelle mie corde, ma è
fallito per colpa mia, "Temporale Rosy", che il pubblico
non è riuscito ad amare. Che la critica non amasse i miei film
non mi ha mai preoccupato, ero abituato ad essere considerato trash,
ma quando il pubblico non mi seguiva ci rimanevo male. D'altra parte,
avendo diretto 62 film, mica potevano essere tutti successi».
Molti le hanno chiesto quali autori pensa siano suoi discepoli, ma
lei rifiuta questa definizione... «I discepoli non esistono,
mi piacciono registi come Marra, Crialese, Sorrentino, in parte Giordana,
perché riescono a rappresentare l'Italia di oggi, ma a tutti
loro manca la carica interna del "Manifesto" di Karl Marx».
Vuole dire allora quali sono i registi su cui si è formato?
«Ma così vengono fuori tutti i miei 90 anni! Adoravo
René Clair, un po' meno Marcel Carné, il Julien Duvivier
del "Bandito della Casbah", tutte le commedie americane
degli anni '30 e '40, Billy Wilder, William Wyler, Ernst Lubitsch.
Poi registi come Eric von Stroheim e film come "Femmine folli"
e "L'Angelo Azzurro". Andavo al cinema, mi appassionavo,
volevo diventare come loro. Un posto particolare hanno avuto tutti
i comici: Buster Keaton, Charlie Chaplin, Stan Laurel e Oliver Hardy
(grandissimi registi di se stessi) e Harry Langdon, sono loro che
mi hanno formato». |
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